GESTIONE DELLA DIVERSITA’: MEDIAZIONE CULTURALE per la SICUREZZA SOCIALE
“Pensare azioni di POLITICHE CULTURALI finalizzate alla Mediazione Culturale che possano contribuire:
alla comprensione di quali siano quelle importanti Distorsioni cognitive da correggere per una migliore vita relazionale;
a facilitare l’abbattere dei Pregiudizi per una migliore vita sociale;
a concorrere al contrasto degli analfabetismi funzionali per facilitare la comprensione e la critica costruttiva dei fenomeni che ci coinvolgono
vuol dire CONTRIBUIRE AL MANTENIMENTO DELLA SICUREZZA SOCIALE in DEMOCRAZIA”
Con la pubblicazione del suo libro nel 1895, “La Folla: uno studio sulla mente popolare”, il francese Gustave Le Bon teorizzò un nuovo concetto: la “la Folla Psicologica” un fenomeno che emerge dall’incorporazione della popolazione riunita non solo a formare un nuovo corpo, ma che crea anche una “incoscienza collettiva”. Le Bon sostenne che mentre un gruppo di persone si riunisce e si fonde a formare una Folla, contemporaneamente si forma una “influenza magnetica emessa dalla folla” che trasmuta il comportamento di ogni singolo individuo fino a quando questo non inizia ad essere governato dalla “mente di gruppo”. Questo modello tratta la Folla come un’unità nella sua composizione che priva ogni singolo membro delle proprie opinioni, di valori e credenze; Le Bon affermava: “ …un individuo in mezzo alla folla è un granello di sabbia in mezzo ad altri granelli di sabbia, che il vento suscita a volontà”.
Con la sua Teoria Le Bon ha dettagliato tre processi chiave che creano la folla psicologica:
l’Anonimato,
il Contagio … e
la Suggestionabilità.
L’ ANONIMATO fornisce agli individui razionali un sentimento di invincibilità e la perdita di responsabilità personale: un individuo diventa primitivo, irragionevole ed emotivo. Questa mancanza di autocontrollo consente agli individui di “cedere agli istinti” e di accettare le pulsioni istintive del loro “inconscio razziale”.
Il CONTAGIO si riferisce alla diffusione nella Folla di comportamenti particolari: gli individui sacrificano il loro interesse personale per l’interesse collettivo.
La SUGGESTIONABILITA’ è il meccanismo attraverso il quale si ottiene il contagio: mentre la Folla si fonde in una unica Mente singolare, i suggerimenti a loro veicolati da “voci forti” crea lo spazio per portare alla ribalta l’inconscio razziale e guidarne il comportamento.
A questo punto, la Folla psicologica, diventa omogenea e malleabile ai suggerimenti proposti e promossi (attraverso la propaganda) dai suoi membri più forti. “I leader di cui parliamo”, dice Le Bon, “sono di solito uomini d’azione piuttosto che di parole. Non sono dotati di acuta lungimiranza … Sono particolarmente reclutati nei ranghi di quelle persone semi-squilibrate, eccitanti, morbosamente nervose, che stanno al limite della follia …”
Lo storico George Mosse afferma che sia Mussolini che Hitler, così come Lenin e Stalin, furono profondamente influenzati da Le Bon, questi studiarono attentamente le sue teorie (Hitler ne ha attinto addirittura i concetti sulla propaganda riportandoli nel suo Mein Kampf) così come le altre successive conseguenti apportate da altri scienziati come ad esempio Sigmund Freud (in: “Psicologia della Masse e dell’Io”) e lo psicologo sociale Wilfred Trotter (in: “Gli Istinti del branco in pace e guerra”) che hanno rinforzato il pensiero di Le Bon.
Dal Comportamentismo alle Scienze Comportamentali
Il pensiero di Le Bon (così come quello di altri studiosi) ha gettato in sostanza le basi per lo sviluppo dello studio del Comportamentismo.
Il Comportamentismo è lo studio sistematico alla comprensione del comportamento dell’Uomo e degli altri animali. Questo presuppone che tutti i Comportamenti siano il prodotto di risposta a determinati stimoli nell’ambiente oppure una conseguenza della storia di un Individuo. L’approccio allo studio del Comportamentismo che emerse alla fine del diciannovesimo secolo (combinando elementi di filosofia, metodologia e teoria psicologica) si propone lo scopo di elaborare metodi per tentare di fare previsioni che potessero essere testate sperimentalmente, in alternativa ad altre forme tradizionali di psicologia che avevano, appunto, difficoltà ad elaborare modelli di previsione. Sebbene i Comportamentisti generalmente accettino l’importante ruolo dell’ereditarietà (innatismo) nel determinare il comportamento di un individuo, questi si concentrano principalmente sui fattori ambientali.
Nel corso del ‘900 lo studio del Comportamento si è evoluto nello studio multidisciplinare delle Scienze Comportamentali che esplora i processi cognitivi all’interno degli organismi e le interazioni comportamentali tra gli organismi nel mondo naturale, implicando l’analisi sistematica e l’indagine del comportamento umano e animale attraverso lo studio del passato, l’osservazione controllata e naturalistica del presente e la sperimentazione e la modellizzazione scientifica disciplinata. Tenta di ottenere conclusioni legittime e obiettive attraverso rigorose formulazioni e osservazioni.
In generale, la Scienza Comportamentale si occupa principalmente dell’azione umana e cerca di generalizzare il comportamento dell’Uomo in relazione alla Società. Dunque l’approccio allo studio delle Scienze Comportamentali (che includeva inizialmente discipline quali la psicologia, la psicobiologia, l’antropologia e le scienze cognitive) a partire dalla massiccia penetrazione sociale dei Media di Massa (quali la televisione fino ad arrivare ad Internet) non può oggi prescindere di prendere in considerazione anche altre discipline quali le Scienze della Comunicazione e dell’Informazione o le Neuroscienze, …, per cercare di capire come l’Elaborazione da parte dell’Uomo delle Informazioni provenienti dagli stimoli dell’ambiente sociale può influire sui processi decisionali, nell’elaborazione dei giudizi sociali e nella percezione sociale per il funzionamento individuale e la sopravvivenza dell’Individuo in un ambiente sociale.
Avere consapevolezza degli aspetti Comportamentali è importante nella funzione di Mediatore Culturale
“L’approfondita conoscenza dei codici di comunicazione delle due culture (verbali e non-verbali) consente al mediatore di assumere anche la funzione di ‘muro di gomma’ tra gli interlocutori, assorbendo il disagio e l’ansia legati ad una comunicazione difficile e restituendo tranquillità, cercando di infondere un sentimento di Equità esplicitando e traducendo non solo la parte linguistica ma anche gli aspetti comportamentali che hanno dimensione culturale che potrebbero portare a fraintendimenti od irrigidimenti. Questa funzione del Mediatore Culturale è particolarmente importante nella gestione delle situazioni conflittuali.”
Nella sua funzione di mediazione culturale il mediatore si ‘prende cura dello straniero’ assumendo la responsabilità di condividere un set di strumenti comunicativi che non sia formato solo dalla semplice comprensione della sua Lingua (cioè solo la capacità di comprendere il suo aspetto fonetico, sintattico e grammaticale), ma anche dalla comprensione del suo Linguaggio Comportamentale cioè di quelle manifestazioni antropologico culturali caratteristiche della sua Identità (ad esempio: riti, norme, superstizioni e credenze, … che spesso governano i suoi comportamenti anche in terra straniera) allo scopo di poter produrre delle relazioni (interculturali) per condividere esperienze significative, iniziando a condividere le caratteristiche identitarie proprie della Cultura del Popolo ospitante.
Nelle funzioni di Mediazione interCulturale oltre ad altre discipline come la Psicologia entra in gioco l’Antropologia Applicata.
L’antropologo Avruch, noto nella comunità scientifica per il suo contributo agli studi sulla risoluzione dei conflitti mediante l’analisi dei comportamenti umani, sottolinea la necessità di prestare grande attenzione alle particolarità della Cultura – da cui derivano i comportamenti individuali e sociali – nell’analisi e la risoluzione dei conflitti.
Egli descrive la Cultura come “un derivato dell’ esperienza dell’individuo qualcosa di appreso o creato dagli individui stessi e tra loro trasmesso socialmente dai contemporanei o dagli antenati (…) Questo orientamento supporta l’idea che gli individui riflettano o incarnino culture multiple e la Cultura derivata viene sempre distribuita psicologicamente e socialmente in un gruppo che si caratterizza con quella Identità culturale (…) In questo contesto la Cultura diventa una cosa molto complicata, una sintesi delle esperienze sia individuali che di gruppo. Ad un individuo quindi appartengono più culture (a vari livelli) e la interpretazione di queste loro esperienze ed incontri non può essere ridotta ad una semplice singola comprensione culturale della realtà sociale. Per questo motivo i significati che gli individui attribuiscono alle cause di un conflitto e alla risoluzione del conflitto non può essere dedotta unicamente dalla loro appartenenza ad uno o più gruppi sociali. Quando pensiamo alla cultura come ad un concetto flessibile che è sia carico di valore che incentrato sul significato, alla sua qualità generata dai gruppi ma anche derivata dai singoli individui, e quando assumiamo con questo concetto di Cultura anche il fatto che questa è dinamica ed in continuo movimento, allora possiamo iniziare a pensare sulla complessa relazione che sussiste tra Cultura e Conflitto”
Nella gestione del Conflitto Interculturale entra in gioco l’Approccio creativo e la Funzione di Utilità
Il sociologo norvegese Johan Galtung con la sua Teoria della Violenza Culturale assume il Conflitto in termini di ‘Incompatibilità’ e di ‘Contraddizioni’ (Culturali) da non confondersi con la tendenza ai comportamenti conseguenti ad un conflitto che sono spesso distruttivi. Egli configura un Conflitto a costituire il ‘Triangolo ABC, ovvero la somma di tre elementi: Atteggiamenti (Attitude) , Comportamenti (Behavior) e delle Contraddizioni (Conflict).
Mentre gli atteggiamenti hanno a che fare con la sfera interiore dell’emotività, dei sentimenti, del nostro stare dentro la relazione, i comportamenti sono legati all’agire pratico. Le contraddizioni invece sono correlate ad obiettivi contrastanti, in una situazione di scarsità di risorse.
Ad ognuna di queste componenti del conflitto viene associato un tipo diverso di violenza. Quella culturale, legata agli atteggiamenti, è la più difficile da sradicare perché è insita nella cultura di appartenenza. (…) L’idea di fondo è che il conflitto nasce perché gli attori perseguono obiettivi diversi e contrastanti. Ma ciò non basta: è necessario considerare anche l’arena del conflitto, cioè le azioni pratiche che compiono gli attori in una situazione di scarsità di risorse. Quest’ultima è una condizione essenziale per fare scaturire un conflitto, dal momento che le persone hanno spesso dei bisogni primari che sono comuni e ciò li spinge a contendersi la stessa risorsa. Eppure il sociologo norvegese sostiene che ogni conflitto può essere trattato con un approccio creativo o ‘trascendente’: questo modus operandi, a volte, permette di focalizzare che la risorsa contesa in realtà non è necessaria, o consente di ricavare dalla stessa risorsa due utilizzi differenti. Spesso, infatti, non si ha chiarezza del proprio bisogno e tanto meno di tutte le possibilità connesse alla sua soddisfazione.
L’approccio creativo, dunque, non è semplicemente un compromesso o un negoziato, ma è un fare chiarezza sui conflitti per affinare una capacità esplorativa tesa allo sviluppo di una Empatia tra le parti. [1]
Gli esperimenti condotti nel campo della Psicologia sociale (che sono stati associati anche alla ricerca in campo economico) dimostrano che il comportamento degli individui dipende da chi pensano di essere sulle basi della loro Cultura, che influenza la composizione delle categorie sociali, le norme che le categorie si attribuiscono e dall’utilità identitaria. Le evidenze di questi ultimi anni di ricerca, dimostrano che l’esistenza di categorie sociali, e l’appartenenza dei soggetti ad una di queste, è regolata da norme che indicano come i membri del gruppo dovrebbero comportarsi e relazionarsi nei processi d’interazione, gli uni con gli altri, influenzandone le decisioni. È stata dimostrata l’importanza delle categorie sociali in quanto queste sono parte del sistema cognitivo di ciascun sistema individuale e sociale, orientandone il comportamento e le decisioni anche nel reperimento delle risorse, quindi anche in campo economico. Ad esempio, gli individui si comportano in modo diverso quando viene loro ricordata, anche impercettibilmente, l’identità del loro gruppo razziale, etnico o sessuale.
Un crescente numero di ricerche sta indagando sull’origine e l’economia delle Norme (Riti) e delle Identità, capendo: come evolvono e cambiano le norme sociali, come queste si diffondono e come sono interiorizzate. Ad esempio, Robert Oxoby (docente in Psicologia comportamentale ed economica esperto nello studio delle dissonanze cognitive e sui loro effetti di ricaduta comportamentale dovuti al Pessimismo) indaga su come le varie personalità ed identità sociali costituiscano fattori salienti negli ambienti di mercato e come l’attivazione di queste identità influiscono sulle interazioni e sui processi decisionali, con la sua teoria egli afferma: “gli individui hanno bisogno di Norme per adattarsi psicologicamente agli ambienti sfavorevoli”.
Risulta evidente come una funzione importante, compito del Mediatore Culturale, per una effettiva integrazione sia quello di essere in grado di sviluppare ed applicare capacità empatiche per trasferire in maniera creativa la ‘Utilità delle Norme’ del Gruppo Ospitante a quello del Gruppo Migrante.
Attenzione però, dobbiamo renderci pienamente consapevoli che essere meno Analfabeti (funzionali) non significa che siamo a riparo da pregiudizi e distorsioni cognitive, che ci possono rendere preda delle cosiddette Trappole Cognitive ...
[1] Vittoria Modafferi sulla relazione di Tiziana Tarsia, Università di Messina
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